Tradizioni popolari. Stregoneria e Brebus in Sardegna. Relatrice l'archeologa Emanuela Katia Pilloni

Sdílet
Vložit
  • čas přidán 16. 09. 2021
  • Associazione Culturale Honebu. Conferenza sulla stregoneria in Sardegna con l'archeologa Emanuela Katia Pilloni.
    Relitto di una preistorica civiltà matriarcale che neppure i secoli della maschilista dominazione romana hanno saputo ribaltare del tutto, la Sardegna non prescinde mai dal rito. Anzi. È essa stessa un ritus, un ordine prescritto dei rapporti fra gli dei e gli uomini e degli uomini fra di loro, di cui la donna è sempre stata, a un tempo, l’officiante e la vittima sacrificale.
    Bruxia. A Delfi, solo alle sacerdotesse era concesso di farsi tramite della volontà del dio usurpatore, Apollo, vincitore della guerra ma non della mediazione che rimase sostanzialmente luogo di sovranità muliebre, retto da una classe sacerdotale che aveva nella Pizia il cardine e il fulcro. Delfina, pitonessa, Pizia. Ovvero la sarda Bithia, custode dei segreti dei luoghi sacri isolani, e antesignana della bruxia, la strega per eccellenza della tradizione sarda. A differenza della coga - che viveva ai margini della società, terribile nell’aspetto e dai modi sinistri -, sa bruxia viveva nel mondo civile e poteva essere moglie e madre affettuosa e devota fedele ma che, mascherando il paganesimo con formule cristiane, manteneva saldo un ponte di comunicazione con un mondo estinto e dimenticato dalla storia. Una casta di sacerdotesse-guaritrici, chiusa e restia a svelare i propri segreti, tramandabili solo per linea femminile, ma ad altissimo prezzo. Il mistero che si svelava chiedeva, infatti, il pagamento di un fio: l’impossibilità di continuare la pratica. Altrimenti la casta sarebbe divenuta classe e la valenza misterica del rito avrebbe perso la sua efficacia.
    L’Inquisizione in Sardegna. Un «feroce e ferale spettacolo durato due intere giornate» che «oltre a condanne più o meno gravi contro 70 poenitentiati» culminò «in 13 condanne al rogo», segnò una delle fasi più cupe della terribile stagione dell’Inquisizione sarda, a poco meno di ottant’anni dalla sua istituzione nell’isola avvenuta nel 1492 - a opera dell’Inquisitore generale Tomas de Torquemada - con la nomina di Sancho Marin. Se in linea teorica il tribunale dell’Inquisizione aveva competenza esclusiva in materia di ortodossia della fede, di fatto esso divenne col tempo strumento principe di repressione e controllo su infiltrazioni giudaizzanti e islamiche, nonché baluardo del cattolicesimo contro l’eresia protestante. In quest’ottica appare più chiaro lo spostamento della sua sede da Cagliari a Sassari nel 1563, dato dalla necessità di impedire l’accesso dai porti settentrionali dell’Isola di eresie protestanti provenienti dal Nord Europa.
    L’abiura. Benché le cronache dell’epoca sogliano descrivere numerose e frequenti condanne, studi recenti sui dati di archivio dei processi per stregoneria, tenutisi in Sardegna dal Tribunale della Santa Inquisizione tra il XVI e il XVII secolo, mostra una realtà meno terrificante. Nessuno infatti dei 165 imputati di stregoneria subì la condanna a morte mediante il rogo o altra forma di esecuzione, e le pene commutate partivano dalla confisca dei beni per giungere alla detenzione in carcere o all’esilio dal proprio paese. Dalla forma de levi (riservata alle persone solo sospettate di atteggiamenti non gravi di eresia), fino a de violentia suspicione haeresis (quando l’imputato è giudicato eretico), passando per quella de haeris formali (per i apostati noti), restava l’abiura - con tutte le sue declinazioni di gravità - la tipologia più frequente di castigo. Ad eccezione del primo caso, il reo era in genere obbligato a prendere parte al cosiddetto rito dei penitenziati, che prevedeva un’apparizione pubblica, in chiesa o nelle piazze principali durante la quale i presunti eretici salivano su un palco e venivano duramente ripresi dall’inquisitore. Seguiva quindi la richiesta di professione dell’abiura, cui seguiva l’assoluzione e la riconciliazione, previo sconto delle pene comminate che potevano variare dalle preghiere ai digiuni, dalla multa alla confisca dei beni, dall’onere di vestire il sambienito - la veste gialla a croci rosse su petto e schiena, che ne rendeva pubblica la condizione - fino al carcere.
    Il caso di San Sperate. Le più cospicue testimonianze di attività eretiche a San Sperate si concentrano nella metà del Settecento: ad Antonia Melis, vedova di 44 anni, furono comminate 17 denunce di eresia; la trentottenne Caterina Anna Manca, fu rinviata a giudizio per sei volte; Caterina Casti di 60 anni, si autodenunciò ammettendo di praticare tre tipi di brebus: quello contro s’ogu pigau, uno per dolori generici e quello per le sofferenze articolari. Ma per quanto la pratica magica fosse in genere appannaggio del genere femminile, San Sperate può vantare anche illustri fattucchieri. Francesco Esquirru 65 anni, sposato, noto per la pratica de is Nuus, che impediva alle malcapitate vittime di avere rapporti carnali, querelato da Lucia Contini, fu accusato - in concorso col diavolo - della morte di Francesco Diego Cocody.

Komentáře •